Non è Petrolio

"Heritage culturale dal Grand tour ai Selfie, verso una nuova Economia della Bellezza" questo il sottotitolo del volume "Non è Petrolio", il best seller di Federico Massimo Ceschin.

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«Un paese si percepisce “bello” non soltanto perché dotato di antichi patrimoni ereditati dal passato, da sfruttare parassitariamente come “pozzi petroliferi” nella logica della rendita di posizione, ma perché decide strategicamente di puntare su fattori finora ritenuti “inusuali” o “non fruttiferi” come la cura dei beni comuni, la manutenzione dei paesaggi e della qualità urbana, il benessere e la felicità dei cittadini, facendo leva sul valore delle relazioni, sulla dimensione sociale dolce delle comunità locali, sulla qualità della vita nei territori di provincia, sull’entroterra, sull’agricoltura e sull’artigianato di eccellenza, sul “made in Italy”, sulle imprese culturali e creative».

Inizia così il volume “Non è Petrolio“, alla sua quinta edizione, speciale “Anno europeo del Patrimonio Culturale” 2018, che gode della prefazione di Silvia Costa, presidente della Commissione cultura del Parlamento Europeo.

Anno europeo del Patrimonio culturale

Silvia Costa

«L’Anno europeo del Patrimonio è carico di un’aspettativa: richiamare l’attenzione sulle opportunità offerte dal patrimonio culturale, impegnando gli stati membri a lavorare per l’apertura di una nuova visione della tutela e della valorizzazione che deve spingere il settore pubblico a ricercare nuove e utili forme di collaborazione con i privati, affinché il patrimonio sia certamente tutelato ma possa al contempo rappresentare una risorsa che favorisce lo sviluppo economico. Un cambiamento di paradigma (…) per alimentare forme di dialogo strutturato con le dimensioni locali, verso una nuova “dimensione” del Patrimonio che incroci le istanze dal basso, dai territori, che questa pubblicazione, “Non è Petrolio”, riesce a riassumere in sé». Così la presidente Silvia Costa.

Che prosegue: «Riconosco in questa nuova edizione, che l’autore ha opportunamente rivisto e aggiornato dopo aver riscontrato molteplici adesioni, i numerosi progressi che il Paese ha compiuto in questi anni, ma anche le criticità sulle quali siamo ancora tutti chiamati ad operare – ognuno nel proprio contesto, ma con unità di visione e di intenti – per dare senso alla straordinaria opportunità offerta dall’Anno europeo del Patrimonio, avviando definitivamente una nuova stagione di valorizzazione dei Beni Culturali nel nostro Paese».

Viviamo nel tempo dei selfie, non del Grand Tour

Selfie al museo

Come pensare di attivare nuove forme di sviluppo che creino valore, ricchezza e occupazione a partire dalla cultura e dalla bellezza? Come tornare a essere il “Bel Paese“, ovvero un luogo che si riconosce nella propria storia e nei valori dei padri (patrimonio) individuando modalità innovative per creare valore contemporaneo? E, soprattutto, dove e quando è nato l’ottuso atteggiamento nei confronti della cultura e dei beni culturali che ha consentito per oltre mezzo secolo di interpretare l’art. 9 della Costituzione nel mero verso della conservazione?

L’Anno Europeo del Patrimonio Culturale è una grandiosa opportunità per avviare una necessaria una rivoluzione dello sguardo: non è il patrimonio culturale ad appartenerci, ma siamo noi ad appartenergli. Lo dice chiaramente la Convenzione di Faro, promossa dal Consiglio d’Europa: siamo parte di “comunità di eredità” che hanno diritto “a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento“, evidenziandone il ruolo quale elemento fondamentale nei “processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio“.

Siamo passati da un modello di trasmissione dei saperi tra le classi sociali ad un modello di apprendimento “osmotico”. Là dove prima erano garantite una gerarchia delle fonti e grandi maestri, irreggimentati dal formalismo e dal nozionismo, la fase attuale trova la dinamica del cloud: una “nuvola” in cui tutti elaborano e trasmettono informazioni rendendole disponibili su richiesta (“on demand”). Si assiste a meccanismi di co-produzione culturale le cui “unità culturali minime” non trovano una relazione accreditata tra fornitore/utente ma sono assegnate – rapidamente e convenientemente – a partire da un insieme di risorse condivise con altri, lasciando a ciascuno una parte dell’onere della interpretazione, della configurazione e della restituzione.

Come parlare di «valorizzazione» senza prima riflettere sul senso del termine «valore»?

Deposito di beni culturali

Argomentare di cultura in rapporto all’economia continua a far storcere il naso. Non solo e non tanto all’interno della comunità scientifica, quanto nel contesto di quelle “corti dei saperi colti” che continuano a manifestare un atteggiamento conservativo, avverso ad ogni forma di divulgazione e di dimensione economica. A loro vedere, sembra sempre di mescolare la sacralità e le ritualità dell’umanesimo con gli aspetti più deteriori del mercato: non riescono a scrollarsi di dosso una certa tendenza a immaginare la cultura come qualcosa di elitario con pochi destinatari in grado di fruirne, imprigionati in una classificazione tra Cultura con la “C” maiuscola e cultura con la “c” minuscola.

«La cultura è saper leggere e interpretare il significato delle cose e la loro identità. È cercare l’anima dei luoghi, il senso dei percorsi, il perché delle realtà e delle vicende che influenzano le relazioni e plasmano la materia», spiega Federico Massimo Ceschin. «La cultura è ricerca di felicità. Dove felicità non è una meta ma un divenire, un percorso da condividere, attraverso un sistema di connessioni e di relazioni che consentono di stimolare appartenenza e coscienza diffuse e partecipate».

Non si tratta dunque di ridurre il patrimonio e le produzioni culturali a merci, mortificandone la qualità, ma di evitare di perseverare nell’equivoco che la purezza della cultura risieda nel mantenerla distante e svincolata da qualsiasi nesso imprenditoriale, di servizio e di innovazione.

Prima ancora che fruibile, dunque, il bene culturale dev’essere vissuto e progettato: non solo una questione di restauro, di consolidamento strutturale, di conservazione, di agibilità, di brochure informative o di musealizzazione, ma di una pianificazione equilibrata, in grado di prefigurare profitti e reddito d’impresa in funzione della domanda, con un’ottica di medio/lungo periodo.

Tre domande all’autore

Bookshop & storytelling

In una frase, qual è la radice del problema?

«Non possiamo sopravvivere, come italiani, con un deficit totale di orientamento strategico: mancano connessioni sufficientemente robuste tra pubblico e privato, indispensabili per garantire la tutela e la manutenzione, cofinanziare le infrastrutture e attivare servizi atti a garantirne una gestione efficace. Peggio ancora, in Italia si vive di rendita e non si ritiene di avere alcuna necessità di innovare il prodotto e inventare motivi di attrazione. Così proseguiamo tutti nel solco dello spontaneismo che ha caratterizzato l’economia turistica e persino culturale da quando esiste il turismo di massa».

Per questo non le piace l’accostamento al “petrolio”, né la definizione di “giacimento culturale”?

«La concezione di patrimonio come “petrolio d’Italia” sostiene una visione dei beni culturali che – nella migliore delle ipotesi – riconosce il loro essere parte della storia e dell’identità nazionale, fatta di uomini e di idee ispirate, ma è una visione consegnata al passato, alla memoria, come risorsa passiva, anziché viva e pulsante. Considerare la cultura come un “giacimento”, che produce valore per il fatto stesso di esistere, che rimane lì in attesa di essere sfruttato, che non si esaurisce e che può rappresentare la soluzione di tutti i problemi del Paese, significa abdicare a tutti i ruoli e sottrarci ad ogni responsabilità. Si traduce in una diffusa, sconfortante e pericolosissima mentalità che impedisce di analizzare seriamente il quadro delle potenzialità, tra opportunità e minacce, chiudendo gli occhi di fronte alla necessità di approcci nuovi e scientifici, di managerialità e – su tutto – di una nuova relazione tra pubblico e privato che superi la atavica ipocrisia che fino ad oggi li trova inesorabilmente su fronti opposti o complici delle medesime malefatte».

«Il petrolio è una risorsa che si trova per destino, scavando nella terra, per caso, senza particolari meriti, mentre la cultura è qualcosa che non si trova ma si costruisce. L’idea stessa di un combustibile fossile in rapido esaurimento, fonte di conflitti e di pesantissime disuguaglianze in ogni parte del mondo – spesso anche una scusa per giustificare feroci dittature e atroci aggressioni all’ambiente – è di per se stessa quanto di più lontano dalla cultura, che ha invece il compito di avvicinare, confrontare, approfondire, far incontrare le diversità e promuovere il dialogo. La sua “profittabilità” rimane profondamente diversa: la cultura è un volano economico post-industriale, destinato ad arricchire società caratterizzate da elevati livelli di sviluppo umano, capaci di creare valore attraverso luoghi ed esperienze, con connessioni civili e sociali di elevato spessore».

E quindi, cosa fare?

«Non vi è nulla che offra la misura dello stato di salute di una società quanto il rapporto che essa riesce ad avere simultaneamente con i propri monumenti e con il proprio paesaggio, ovvero con la propria storia e con l’ambiente in cui si vive quotidianamente. La verità è che l’Italia è riuscita a tutelare il proprio patrimonio nei secoli grazie ad una diffusa “cultura della conservazione” che ha salvaguardato i singoli monumenti ma ha completamente mancato di valorizzarli come parte di un insieme incardinato nel territorio, di una rete ricca di significati identitari, nella quale il valore di ogni singolo monumento (o museo o oggetto d’arte) non risulti dal proprio isolamento, ma dal suo innestarsi in un contesto vitale, attraente e fruibile.
Si è così completamente mancato l’obiettivo di far fiorire attorno ai nostri beni culturali le imprese, alle quali oggi paradossalmente si chiede responsabilità attraverso formule di fundraising mutuate dall’estero, dove ormai però da tempo l’economia dei beni culturali si è indissolubilmente legata all’identità del territorio e delle comunità locali o nazionali
».

«Non è pensabile insistere oltre nelle politiche di conservazione dei beni culturali senza comprenderne l’importanza vitale per il Paese e le sue espressioni locali, né senza produrre valore reale (reddito, benessere, occupazione). Si rende necessaria una stagione del patrimonio completamente nuova, come impalcatura doverosa e imperativa tra esigenze di conoscenza, di tutela e di fruizione. Doverosa perché senza riconoscere il passato, saremmo un Paese senza futuro. E imperativa perché viviamo di presente: non possiamo rimanere incastrati nelle visioni antiquarie ottocentesche né invischiati nei modelli produttivi di altri tempi. Per chi non se ne fosse accorto, un nuovo millennio si è affacciato ormai da tempo, chiedendo di sottrarre i nostri patrimoni alla polvere, alle ragnatele e all’incuria, per entrare con dinamismo e da protagonisti nell’era digitale, social, dell’intelligenza collettiva e condivisa».

«In ultima istanza, serve un progetto unitario e nazionale, capace di sostenere e incoraggiare la transizione del nostro Paese da sommatoria spontanea di motivi di eccellenza in un sistema integrato di bellezze, paesaggi, tradizioni, culture, produzioni e cucine. Un Paese da attraversare lentamente, conoscere e rivedere infinite volte. Un Paese da vivere e da rispettare. Un Paese da amare».

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