La Nike di Samotracia ci insegna che l’imperfezione è bellezza

La "vittoria alata", la Nike di Samotracia, ci insegna il valore dell’imperfezione: la mutilazione dovuta allo scorrere del tempo non ne diminuisce la bellezza ma la esalta. Un insegnamento prezioso in un’epoca in cui la bellezza è diventata un modello irraggiungibile di perfezione.

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Conservata al Museo del Louvre di Parigi, la Nike di Samotracia è una delle sculture più belle e struggenti che l’antichità ci abbia consegnato. Ma qual è il segreto di tanta misteriosa bellezza?

Storia della Nike di Samotracia

Nike di Samotracia

Scolpita a Rodi in epoca ellenistica, la Nike di Samotracia fu realizzata per celebrare la vittoria della piccola flotta navale di Rodi contro l’esercito del re siriano Antioco III. In greco, infatti, il vocabolo “nike” vuol dire vittoria (è proprio da questa parola che deriva il nome del noto marchio di scarpe).
L’autore dell’opera è sconosciuto, ma con tutta probabilità si tratta dello scultore ellenistico Pitocrito, come suggerito dal nome rinvenuto sul basamento della statua. Dopo esser rimasta nel santuario dei Grandi Dei di Samotracia per diversi secoli, la Nike scomparve misteriosamente. Fu rinvenuta il 15 aprile del 1863 in stato frammentario dall’archeologo francese Charles Champoiseau e acquistata successivamente dai francesi.

Bellezza senza tempo

Quando l’archeologo francese Champoiseau rinvenne la Nike di Samotracia – conosciuta anche come “vittoria alata” – si trovò di fronte a un corpo mutilato, dalla struttura acefala e senza braccia, raffigurava Nike, la dea alata della Vittoria, figlia del titano Pallante e della ninfa Stige. La dea, avvolta da una tunica leggera, è immortalata ad ali spiegate nell’atto di posarsi sulla prua di una nave da battaglia. Un vento impetuoso la travolge, facendo aderire il panneggio al corpo, in un gioco di chiaroscuri di grande suggestione.

Cosa ci insegna

Nike di Samotracia

La figura è maestosa, ma anche incredibilmente vera e sensuale, bellissima nelle sue imperfezioni. Questa scultura ci insegna, infatti, il valore dell’imperfezione, dove il limite (in questo caso, la mutilazione dovuta allo scorrere del tempo) non diminuisce la bellezza, bensì la esalta.

Un insegnamento prezioso in un’epoca in cui la bellezza è diventata un modello irraggiungibile di perfezione, dove asimmetrie e imperfezioni vengono brutalmente cancellate dai device tecnologici.

Ed è proprio qui che l’arte ci lascia ancora una volta stupefatti. Lo fa ribaltando il nostro orizzonte di riferimento, scardinando quei preconcetti che ci impediscono di cogliere l’aspetto più poetico dei corpi e delle forme che ci circondano.

[Contributo pubblicato da Liberiamo]

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