I percorsi da disegnare per la mobilità umana sono costituiti da elevate componenti immateriali, ancora spesso ritenute marginali: paesaggi e comunità locali sono fattori considerati ancora disaggregati, senza riguardo per usi, costumi, stili di vita, ambizioni e identità che trovano nelle forme di mobilità uno straordinario collante.
Un piccolo pianeta dalle risorse limitate
Che l’uomo sia ontologicamente un viandante lo abbiamo detto. E scritto. Scolpito nelle premesse del Libro bianco degli Itinerari (“Del Viaggio Lento e della Mobilità Sostenibile“).
Fin dal tempo della preistoria abbiamo disegnato l’ambiente che ci circonda come appariva da una posizione elevata, incisa nelle pitture rupestri: per quattro milioni di anni, come specie, ci siamo concentrati sull’evoluzione dei piedi, prima di concentrarci per un milione di anni sull’evoluzione del cervello.
Ma solo nella nostra epoca – precisamente la vigilia di natale del 1968, cinquant’anni fa – la Terra ci è apparsa per come è davvero, quando tre astronauti dell’Apollo 8 hanno orbitato intorno alla Luna e ci hanno consentito di vedere l’intero pianeta con un unico sguardo, rendendoci consapevoli della finitezza e della limitatezza dei nostri orizzonti.
In questo piccolo pianeta, sospeso nello spazio infinito, le esigenze di mobilità hanno continuato ad aumentare e, secondo le previsioni dell’Organizzazione mondiale del turismo, gli arrivi internazionali sono destinati ad aumentare fino a raggiungere quota 1.8 miliardi entro il 2030.
Pericolo overtourism
Grandi opportunità, per alcuni versi, ma anche grandi minacce: non soltanto i fenomeni di overtourism che assediano i grandi centri d’arte e di cultura stravolgendoli nella loro identità e intimità, quanto per ogni luogo in cui la congestione urbana costituisca un pericolo concreto per la convivenza civile e per la qualità della vita. Le avvisaglie sono di dimensione tale che nessuna classe dirigente consapevole possa permettersi di ignorarle.
E’ importante considerare, inoltre, che quasi tre quarti della popolazione europea vive in aree urbane e, stando alle stime ufficiali, questa percentuale è destinata ad aumentare negli anni a venire, raggiungendo l’80% intorno al 2050. E che anche le città italiane si divideranno sempre più tra piccole, in continuo spopolamento, verso una progressiva desertificazione di ampie zone del Paese, mentre le più grandi dovranno far fronte ad un numero sempre crescente di sfide nel proprio percorso verso uno futuro più sostenibile e inclusivo.
La mobilità anzitutto dev’essere sostenibile
Da qui l’esigenza di disegnare una mobilità sostenibile, ovvero modalità di trasporto e di spostamento in grado di diminuire gli impatti ambientali, sociali ed economici generati dai veicoli motorizzati. La nostra stessa sopravvivenza è determinata dalla capacità che dimostreremo di saper ridurre l’inquinamento atmosferico e le emissioni di gas serra che minacciano il clima e la salute, ridurre la congestione stradale e le cause di incidentalità, il consumo di suolo per strade e sempre nuove infrastrutture, nonché arrestare il degrado dell’espansione delle periferie, che aggrediscono con il cemento le aree rurali e si allontanano progressivamente dall’agorà dei centri cittadini, sostituendo le piazze d’incontro e di relazione con i centri commerciali e altri non-luoghi privi di anima.
Ma non basta: dev’essere anche “dolce”
La mobilità dolce è però un paradigma diverso. Non è soltanto sostenibile. Ovvero, potrebbe certo rientrare nel concetto di mobilità “a impatto zero” – basata su trasporti non motorizzati, che fanno ricorso esclusivamente alla forza umana (human powered mobility), a piedi, in bicicletta o con altre energie naturali o rinnovabili – ma si propone come la forma di mobilità che viaggia alla velocità dell’utente più debole e più fragile, in sintonia con i luoghi e con l’ambiente.
Ciò apre lo scenario ad una notevole varietà di orientamenti, di indirizzi strategici e – soprattutto – richiede la modifica del quadro delle competenze necessarie a realizzare sistemi di “soft mobility” imperniati sulla centralità della persona, sull’accessibilità, sull’intermodalità, sulle pratiche di consumo, sugli stili di vita, sulla velocità stessa dei nostri trasferimenti e dei nostri orizzonti.
Il quadro normativo, nemmeno a dirlo, è del tutto inadeguato
Per nostra buona sorte, le politiche per la mobilità sostenibile a scala urbana e la pianificazione dei trasporti hanno via via visto aumentare l’interesse da parte dell’Unione Europea. Già con Direttiva 2009/33/Ce si introduceva il Piano d’azione per la mobilità urbana, contenente 20 azioni per supportare gli Enti Pubblici nella realizzazione di obiettivi di sostenibilità nei trasporti. E con documenti di policy più recenti, tra cui il Libro Bianco dei Trasporti (2011), dove si trovano i fondamenti per un possibile cambio di rotta:
– Azione 31: Piani Urbani della Mobilità Sostenibile (PUMS-SUMPs);
– Azione 32: framework per la tariffazione degli accessi nelle aree urbane e per la limitazione via regolazione;
– Azione 33: misure di logistica urbana (“Low Emission Zone”) nelle maggiori aree urbane entro il 2030.
Rilevante anche la Direttiva 2014/94/UE sulla realizzazione di un’infrastruttura per i combustibili alternativi. E, senza dubbio, la Urban Agenda del 2015, per cui la redazione dei PUMS è diventata precondizione essenziale per gli enti locali che intendono ottenere sostegni finanziari per progetti di trasporto urbano. E poi ancora la Strategia europea per la mobilità a basse emissioni del 2016.
In ambito nazionale, fino a poco tempo fa il principale testo di legge era il decreto interministeriale “Mobilità Sostenibile nelle Aree Urbane” del 27 marzo 1998: un testo che ha compiuto vent’anni e non considerava in alcun modo le innovazioni sempre più incalzanti intervenute nei due decenni.
Nel 2000, con Legge n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi), l’art.22. ha introdotto nell’ordinamento i “Piani urbani di mobilità” (PUM), definiti come progetti di sistema che interessano bacini di mobilità relativi ad aree territoriali contigue, comprendenti un insieme organico di interventi materiali e immateriali diretti al raggiungimento di specifici obiettivi da sviluppare in un orizzonte temporale di medio/lungo periodo.
Nel 2016, con Decreto Legge n. 257, in attuazione della citata Direttiva 2014/94/UE sui carburanti alternativi e nella disciplina del Quadro Strategico Nazionale, finalmente nel nostro paese sono introdotti i PUMS: Piani Urbani della Mobilità Sostenibile.
Un lasso di tempo ancora troppo breve per mettere ordine nella selva oscura di strumenti di pianificazione e di programmazione su scala regionale e locale: si pensi alla quantità di carte circolanti, tra Piani Urbanistici, Piani territoriali a scala locale, Piani Generali del Traffico Urbano, Piani di settore (Mobilità ciclistica/sosta/TPL/ecc.), Piani di Zonizzazione Acustica, Piani del Commercio, PAES, Piani di Risanamento dell’Aria, senza tornare ai Programmi Triennali delle Opere Pubbliche, ai Piani regolatori ancora vigenti, ecc.
Nel frattempo, mentre decollano progetti come l’Atlante dei Cammini o il Piano Nazionale delle Ciclovie Turistiche, continuiamo ad assistere alla realizzazione – a macchia di leopardo – di piste ciclabili lunghe poche decine di metri che terminano nel nulla, percorsi pedonali improbabili, reti sentieristiche con posa in opera di segnaletiche disomogenee e incoerenti, sulla base di progetti firmati da uffici pubblici e studi privati che ne hanno piena legittimità formale ma scarsa competenza sul piano sostanziale.
Tutto ciò non può stupire, se consideriamo che – ad oggi – non esiste nemmeno una definizione di mobilità dolce.
I percorsi da disegnare per la mobilità umana sono costituiti da elevate componenti immateriali, ancora spesso ritenute marginali: paesaggi e comunità locali sono fattori considerati ancora disaggregati, senza riguardo per usi, costumi, stili di vita, ambizioni e identità che trovano nelle forme di mobilità uno straordinario collante, se pianificato e realizzato in modalità coerenti, oltre che compatibili, sottraendosi alla polverizzazione dettata da confini amministrativi o da eccessive dosi di campanilismo: possono costituire lo strumento per connettere luoghi e situazioni, beni culturali e ambientali, monumenti e attrattori “minori”, attraverso nuovi modelli di fruizione e di partecipazione, attività di animazione quali laboratori, esperienze di visita, allestimenti più o meno temporanei, consentendo la rigenerazione delle periferie e delle aree periurbane, nonché la valorizzazione delle loro valenze peculiari e non delocalizzabili, anche in chiave di turismo sostenibile e responsabile.
Per questo motivo dobbiamo chiedere il riconoscimento della figura professionale di “esperto di mobilità dolce”.
Non un ennesimo albo, e forse nemmeno soltanto un certificato abilitante, ma un vero e proprio percorso professionalizzante che doti il Paese di nuovi orientamenti consapevoli, permeati dalla cultura del viaggio e dalla capacità di ascoltare le esigenze dei cittadini, che possono essere viaggiatori, esploratori, viandanti, pellegrini, migranti o turisti, così come di tutte le persone e le culture in movimento attraverso questo mondo globalizzato che si aggrappa con forza a ciò che rimane dell’identità dei luoghi, facendoci sempre più sentire parte integrante di società in continuo e repentino mutamento.
Se sei arrivato a leggere fino a qui, ti ringrazio di cuore.
Se anche tu ritieni che la mobilità dolce debba essere sottratta allo spontaneismo, al pressappochismo, ad ogni eccesso di interesse particolare, per diventare un vettore di benessere per le città, per i territori, per le aree interne, riconnettendoci con l’ambiente e con il paesaggio, offrendoci una qualità di vita più sana ed equilibrata, consentendoci di ritrovare e riscoprire luoghi e momenti di incontro e di relazione, non far mancare di sentire la tua voce.
Se anche tu ritieni che la passione per il territorio e l’impegno verso la comunità locale debbano essere accompagnate da professionalità qualificate e in costante aggiornamento, non rimanere indietro.
Se anche tu consideri necessario pianificare lo sviluppo adottando una visione strategica orientata ai bisogni dei cittadini; che la produzione e il consumo di energia, la mobilità e i trasporti siano elementi cruciali e trasversali, con molteplici ripercussioni sulla vita di ogni persona; che sia finito il tempo di concentrare gli sforzi su politiche settoriali separate e miopi, per iniziare a ricercare un approccio olistico alla pianificazione dei territori; che le competenze multidisciplinari siano l’elemento chiave di un processo armonizzato di pianificazione del futuro; che sia necessario offrire al Paese, attraverso i suoi decisori politici, i suoi uffici tecnici, i suoi portatori di interesse pubblici e privati, una visione integrata e sinergica delle possibili azioni mirate a migliorare la qualità della vita di tutti, fai un passo avanti.
Se tutto questo appassiona anche te e vuoi condividerlo con una rete nazionale di esperienze, ricorda le parole di uno dei tre astronauti che fotografarono per la prima volta la Terra cinquant’anni fa, William Anders: “Abbiamo fatto tutta questa strada per esplorare la Luna, ma la cosa più importante è che – da qui – abbiamo scoperto la Terra”.
Ripartiamo da qui. Visita il sito di SIMTUR, www.simtur.it.
La mobilità di domani si realizza oggi.