Parliamo di bellezza quando godiamo qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che lo possediamo. È bello qualcosa che, se fosse nostro, ne saremmo felici, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro.
Bellezza e arte non sono concetti coincidenti
Nell’antichità ed in molti periodi storici era considerata bellezza soprattutto quella della natura, mentre l’arte aveva soltanto il compito di fare bene le cose che faceva, in modo che servissero allo scopo a cui erano destinate Perciò si considerava arte sia quella del pittore e dello scultore sia quella del costruttore di barche, del falegname o del barbiere. Soltanto molto tardi, per distinguere pittura, scultura e architettura da quello che oggi chiameremmo artigianato, si è elaborata la nozione di Belle Arti. Al contrario, certe teorie estetiche moderne hanno riconosciuto solo la Bellezza dell’arte, sottovalutando la Bellezza della natura.
A volte diversi modelli di Bellezza coesistono in una stessa epoca, mentre altri modelli si rinviano l’un l’altro attraverso epoche diverse.
Ad esempio, coesistono nella storia due ideali di bellezza femminile:
- Uno è il modello della Venere greca che predomina ai nostri giorni;
- l’altro è quello della Venere paleolitica, grassa, con grosso seno e grosso sedere.
Nel corso della storia del gusto si alternano modelli tondeggianti (simboli di fertilità) e modelli più sottili e slanciati (tipici dell’adolescenza).
La Venere del Botticelli ha forme sensuali e slanciate allo stesso tempo.
Le donne di Rubens e di Renoir richiamano invece certe caratteristiche della Venere paleolitica.
Al di là delle diverse concezioni della Bellezza vi sono alcune regole uniche per tutti i popoli in tutti i secoli. E qui ci occuperemo più delle differenze che delle costanti.
La bellezza dei greci
Ai greci, almeno fino all’età di Pericle, manca una vera e propria estetica e una teoria della Bellezza. Kalón significa tutto ciò che piace, che suscita ammirazione, che attrae lo sguardo.
Ritroviamo la Bellezza quasi sempre associata ad altre qualità.
Esiodo (Nozze di Cadmo e Armonia): “Chi è bello è caro, chi non è bello non è caro”.
L’oracolo di Delfi, alla domanda sul criterio di valutazione della Bellezza, risponde: “Il più giusto è il più bello”.
Secondo la mitologia, Zeus avrebbe assegnato una misura appropriata e un giusto limite a ogni essere: il governo del mondo coincide così con un’armonia precisa e misurabile, espressa nei quattro motti scritti sulle mura del tempio di Delfi: “Il più giusto è il più bello”, “Osserva il limite”, “Odia la hybris (tracotanza)“, “Nulla in eccesso”.
Su queste regole si fonda il senso comune greco della Bellezza, in accordo con una visione del mondo che interpreta l’ordine e l’armonia come ciò che pone un limite allo “sbadigliante Caos”, dalla cui gola è scaturito, secondo Esiodo, il mondo.
È una visione posta sotto la protezione di Apollo, che infatti viene raffigurato tra le Muse sul frontone occidentale del tempio di Delfi. Ma sullo stesso tempio (risalente al IV secolo a.C.) è raffigurato, sul frontone orientale opposto, Dioniso, dio del caos e della sfrenata infrazione di ogni regola.
Da qui Nietzsche riprenderà i suoi concetti di “dionisiaco” ed “apollineo” come elementi centrali della tragedia greca: l’armonia serena, intesa come ordine e misura, si esprime in una Bellezza che Nietzsche denomina apollinea.
Ma questa Bellezza è al tempo stesso uno schermo che cerca di cancellare la presenza di una Bellezza selvaggia, conturbante, che non si esprime nelle forme apparenti, ma al di là delle apparenze. È questa una Bellezza gioiosa e pericolosa, antitetica alla ragione e spesso raffigurata come possessione e follia: è il lato notturno del mite cielo attico, che si popola di misteri iniziatici e di oscuri riti sacrificali, come i Misteri Eleusini e i riti dionisiaci.
Questa Bellezza notturna e conturbante rimarrà nascosta sino all’età moderna, per configurarsi poi come il serbatoio segreto e vitale delle espressioni contemporanee della Bellezza, prendendosi la sua rivincita sulla bella armonia classica.
Ma l’autore dell’Iliade e de L’Odissea dà una giustificazione implicita della guerra di Troia: l’irresistibile Bellezza di Elena assolve di fatto la stessa Elena dai lutti da essa causati.
Quando i filosofi pre-socratici – come Talete, Anassimandro e Anassimene, fra il VII e il VI secolo a.C. – discutono quale sia il principio di tutte le cose (e indicano l’origine della realtà nell’acqua, nell’infinito originario, nell’aria) tentano di dare una definizione del mondo come un tutto ordinato e governato da una sola legge. Questo significa anche pensare al mondo come a una forma, e i greci avvertono nettamente l’identità tra Forma e Bellezza.
Tuttavia chi affermerà queste cose in modo esplicito, iniziando a stringere in un solo nodo cosmologia, matematica, scienza naturale ed estetica, sarà Pitagora con la sua scuola, sin dal VI secolo avanti Cristo.
I pitagorici sono i primi a studiare i rapporti matematici che regolano i suoni musicali, le proporzioni su cui si basano gli intervalli, il rapporto tra la lunghezza di una corda e l’altezza di un suono. L’idea dell’armonia musicale si associa strettamente a ogni regola per la produzione del Bello.
I rapporti che regolano le dimensioni dei templi greci, gli intervalli tra le colonne o i rapporti tra le varie parti della facciata corrispondono agli stessi rapporti che regolano gli intervalli musicali.
L’idea di passare dal concetto aritmetico di numero al concetto geometrico-spaziale di rapporti tra vari punti, è appunto un’idea dei pitagorici.
Per i primi pitagorici l’armonia consiste nella opposizione, oltre che del pari e dell’impari, di limite e illimitato, unità e molteplicità, destra e sinistra, maschile e femminile, quadrato e rettangolo, retta e curva, e così via.
Ma sembra che per Pitagora e i suoi immediati discepoli, nella opposizione di due contrari, uno solo rappresenti la perfezione: l’impari, la retta e il quadrato sono buoni e belli, le realtà opposte rappresentano l’errore, il male e la disarmonia.
Eraclito: l’armonia degli opposti
Diversa sarà la soluzione proposta da Eraclito: se esistono nell’universo degli opposti, delle realtà che paiono non conciliarsi, come l’unità e la molteplicità, l’amore e l’odio, la pace e la guerra, la calma e il movimento, l’armonia tra questi opposti non si realizzerà annullando uno di essi, ma proprio lasciando vivere entrambi in una tensione continua. L’armonia non è assenza bensì equilibrio di contrasti.
Platone
La concezione matematica del mondo dei pitagorici la si ritroverà anche in Platone e specialmente nel dialogo Timeo.
Da Platone nasceranno le due concezioni più importanti della Bellezza che sono state elaborate nel corso dei secoli:
- la Bellezza come armonia e proporzione delle parti (derivata da Pitagora);
- la Bellezza come splendore, esposta nel Fedro, che influenzerà il pensiero neoplatonico.
Per Platone la Bellezza ha un’esistenza autonoma, distinta dal supporto fisico che accidentalmente la esprime; essa non è dunque vincolata a questo o quell’oggetto sensibile, ma risplende ovunque.
La Bellezza non corrisponde a ciò che si vede (celebre era infatti la bruttezza esteriore di Socrate, che però risplendeva di Bellezza interiore).
Poiché il corpo è per Platone una caverna buia che imprigiona l’anima, la visione sensibile deve essere superata dalla visione intellettuale, che richiede l’apprendimento dell’arte dialettica, ossia della filosofia. Non a tutti dunque è dato di cogliere la vera Bellezza.
In compenso, l’arte propriamente detta è una falsa copia dell’autentica Bellezza e come tale è diseducativa per i giovani: meglio dunque bandirla dalle scuole, e sostituirla con la Bellezza delle forme geometriche.
Aristotele
La teoria più generale, filosofica, del bello e dell’arte nasce storicamente, in forma sistematica, con la Poetica di Aristotele con il concetto di poesia (e arte in genere) come “mimèsi” (imitazione), o “verosimiglianza”.
- “Compito del poeta non è descrivere cose accadute ma cose come potrebbero accadere: cioè cose che siano possibili secondo verosimiglianza o necessità…”
- “…è credibile (poetico) ciò che è possibile”… cioè implicitamente verosimile o necessario (razionale).
- “la tragedia… mediante casi che suscitano pietà e terrore (=trepidazione) produce la purificazione (catarsi) di questo genere di passioni”.
Mentre la commedia è mimesi di soggetti piuttosto ignobili che, mediante il ridicolo, suscita il riso, che è una sollecitazione utile e piacevole, che crea uno stato d’animo sereno e “disposto al bene”, cioè una specie di catarsi comica (Galvano Della Volpe, Storia del gusto).
Anche nel periodo aureo dell’arte greca, la Bellezza è sempre associata ad altri valori, quali la “misura” e la “convenienza”.
Sul piano della produzione artistica, contrariamente a quanto spesso si crede, la scultura greca non idealizza un corpo astratto, ma ricerca piuttosto una Bellezza ideale operando una sintesi di corpi vivi, nella quale si esprime una Bellezza psicofisica che armonizza l’anima e il corpo, ovvero la Bellezza delle forme e la bontà dell’animo: è questo l’ideale della Kalokagathía, la cui espressione più alta sono i versi di Saffo e le sculture di Prassitele.
(La psicologia contemporanea ha dimostrato cioè che certi modelli di riferimento si formano anche dalla somma di molteplici esperienze. Le facce sovrapposte di Daucher formano un viso i cui lineamenti sono la media statistica di quelli delle diverse donne. La faccia ritenuta più bella dagli osservatori era cioè la media delle altre).
La bellezza nell’antica Roma
Per quanto riguarda il concetto di bellezza tra i romani, va ricordato almeno Orazio, con la sua Arte poetica, che rappresentò per secoli la volgarizzazione dell’estetica aristotelica e presiedette alla nascita del gusto letterario moderno, con il suo razionalismo estetico equilibrato e con il suo “buonsenso”:
- “incredulus odi” (ho orrore di ciò che mi sembra incredibile, inverosimile);
- “scribendi recte sapere est principium et fons” (principio e fonte dello scrivere bene è essere saggio, equilibrato).
Nell’età di mezzo
La cultura medievale partiva da una idea di origine platonica (che si stava sviluppando contemporaneamente anche nell’ambito della mistica ebraica) per cui il mondo è come un grande animale e quindi come un essere umano, e l’essere umano è come il mondo, ovvero il cosmo è un grande uomo e l’uomo è come un piccolo cosmo.
Nasce così la teoria detta dell’homo quadratus in cui il numero, principio dell’universo, viene ad assumere significati simbolici, fondati su serie di corrispondenze numeriche che sono anche corrispondenze estetiche.
Il ragionamento era questo: secondo gli antichi come è nella natura così deve essere nell’arte, ma la natura in molti casi si divide in quattro parti, quindi il numero quattro diviene il numero perno e risolutore. Quattro sono i punti cardinali, i venti principali, le fasi della luna, le stagioni, quattro il numero costitutivo del tetraedro timaico del fuoco, quattro le lettere del nome “Adam”. E quattro sarà, come insegnava Vitruvio, il numero dell’uomo, poiché la larghezza dell’uomo a braccia spalancate corrisponderà alla sua altezza dando così la base e l’altezza di un quadrato ideale.
Severino Boezio trasmette al medioevo la tradizione pitagorica per cui l’anima e il corpo dell’uomo sono soggetti alle stesse leggi che regolano i fenomeni musicali, e queste stesse proporzioni si ritrovano nell’ armonia del cosmo.
Così che micro e macrocosmo (il mondo in cui viviamo e l’intero universo) appaiono legati da un’unica regola matematica ed estetica insieme.
Il Medioevo svilupperà un’infinità di variazioni su questo tema della Bellezza musicale del mondo.
In questo ritorna un’eco della concezione greca di Apollo e Dioniso: benché i greci riconoscano alla musica il privilegio di esprimere l’anima, è solo alle forme visibili che si applica la definizione di bello (Kalón) come “ciò che piace e attrae”. Disordine e musica vengono così a costituire una sorta di lato oscuro della Bellezza apollinea armonica e visibile, e come tali ricadono nella sfera di azione di Dioniso. E’ forse anche per questa eco dionisiaca che, nel Medioevo, anche le cose brutte si compongono.
Il Brutto e il Bello
Ogni cultura, accanto a una propria concezione del Bello, ha sempre affiancato una propria idea del Brutto.
La mitologia greca era ricca di figure quali fauni, ciclopi, chimere e minotauri, o divinità come Priapo, considerate mostruose ed estranee ai canoni di Bellezza espressi dalle statue di Policleto o di Prassitele. Ma l’atteggiamento verso queste entità non era sempre di ripugnanza. Platone nei suoi Dialoghi discute a più riprese del Bello e del Brutto, ma di fronte alla grandezza morale di Socrate si sorride sul suo aspetto di sileno.
Varie teorie estetiche, dall’Antichità al Medio Evo, vedono il Brutto come un’antitesi del Bello, una disarmonia che viola le regole di quella proporzione su cui si fonda la Bellezza, sia fisica che morale, o una mancanza che sottrae a un essere ciò che per natura dovrebbe avere.
In ogni caso però si ammette un principio che viene osservato quasi uniformemente: seppure esistono esseri e cose brutte, l’arte ha il potere di rappresentarle in modo bello, e la Bellezza (o almeno la fedeltà realistica) di questa imitazione rende il Brutto accettabile. Le testimonianze di questa concezione non mancano, da Aristotele sino a Kant.
Con l’avvento della sensibilità cristiana e dell’arte che la esprime, diventano centrali (specie per quanto riguarda la figura di Cristo e dei suoi persecutori) il dolore, la sofferenza, la morte, la tortura, e le deformazioni fisiche che subiscono sia le vittime che i carnefici. (Hegel).
Ma sino a che punto una bella rappresentazione del Brutto (e del mostruoso) non lo rende in qualche misura affascinante? È un problema che riapparirà in tutta la sua forza nell’età romantica.
Esseri leggendari e “meravigliosi”
Dall’antichità al Medioevo si susseguono creazioni di esseri fantastici. Ci sono i Fauni, gli Acefali, con gli occhi sulle spalle e due buchi sul petto al posto di naso e bocca, gli Androgini, con una sola mammella ed entrambi gli organi genitali, i Centauri, gli Unicorni, le Chimere, bestie triformi con testa di leone, la parte posteriore di drago e quella mediana di capra, i Ciclopi, i Cinocefali dalla testa di cane, donne con denti di cinghiale, capelli sino ai piedi e coda di vacca, i Grifoni col corpo d’aquila davanti e di leone dietro, i Ponci con le gambe senza ginocchio, lo zoccolo di cavallo e il fallo sul petto,….ecc.,…
Il Brutto nel simbolismo universale
La cultura medievale non si pone il problema se questi mostri siano “belli”. Essa è affascinata dal Meraviglioso, che è poi la forma che all’epoca assume quello che per i secoli successivi sarà l’Esotico.
Tuttavia il pensiero mistico e teologico dell’epoca deve in qualche modo giustificare la presenza nel creato di questi mostri, e sceglie due strade. Da un lato li inserisce nella grande tradizione del simbolismo universale: ogni essere mondano, animale, pianta o pietra che sia, ha una significazione morale (ci ammaestra su virtù e vizi), o allegorica, e cioè attraverso la sua forma o i suoi comportamenti simboleggia realtà soprannaturali. Perciò anche ad ogni mostro leggendario vengono associati insegnamenti mistici e morali.
Dall’altro i mostri sono inseriti nel disegno provvidenziale di Dio, perché Il Brutto necessario alla Bellezza. L’universo creato è un tutto che va apprezzato nel suo insieme, dove le ombre contribuiscono a far risplendere meglio le luci, e anche ciò che può essere considerato brutto di per sé appare bello nel quadro dell’Ordine generale.
Ed è così che i mostri, amati e temuti, tenuti a bada ma liberamente ammessi al tempo stesso, entrano con tutto il loro fascino dell’orrendo nella letteratura e nella pittura, sempre di più, dalle descrizioni infernali di Dante ai quadri più tardi di Bosch.
Solo alcuni secoli dopo, nella temperie romantica e decadente, si riconosceranno senza ipocrisie il fascino dell’orrendo e la Bellezza del Diavolo.
Amore sacro e amor profano
I filosofi, i teologi e i mistici che nel Medio Evo si sono occupati della Bellezza, non avevano molte ragioni di occuparsi di quella femminile,
Tuttavia non potevano disconoscere il testo biblico e dovevano interpretare i sensi allegorici espressi dal Cantico dei Cantici, il quale – se preso alla lettera – celebra per bocca dello Sposo le grazie visibili della sua Sposa.
Ed ecco che si possono trovare nei testi dottrinali accenni alla Bellezza muliebre: “belli sono infatti i seni che sporgono di poco e sono modicamente tumidi… trattenuti, ma non compressi, legati dolcemente senza che ondeggino in libertà” (Ugo de Fouilloi).
La pittura e la scultura
Nel Medioevo per la maggior parte gli artisti non tendevano a fare cose somiglianti o mirabili, ma volevano trasmettere ai loro confratelli di fede il contenuto ed il messaggio della storia sacra (Gombrich). Il loro intento era soprattutto comunicativo: “La pittura può servire all’analfabeta quanto la pittura a chi sa leggere” (Gregorio Magno).
Spesso nei dipinti e nelle sculture o bassorilievi non c’era nulla che non appartenesse alla storia. Anche gli intenti decorativi erano finalizzati a rafforzare l’effetto della comunicazione attraverso la narrazione.
I pittori e gli scultori mediovali compirono gradualmente un passaggio molto importante per l’arte: mentre gli egizi rappresentavano ciò che sapevano e i greci ciò che vedevano, l’artista medioevale impara ad esprimere nella sua opera ciò che sente.
Giotto
Questo passaggio, già avviato da vari artisti e in particolare da Cimabue, avviene soprattutto con Giotto.
Egli da un lato accentua gli aspetti realistici dei personaggi e del paesaggio, pur trasfigurati come attraverso gli occhi semplici di un bambin, ma soprattutto dall’altro rappresenta i sentimenti nei volti e negli atteggiamenti.
Dame e trovatori
Verso l’XI secolo inizia la poesia dei trovatori provenzali, seguita dai romanzi cavallereschi del ciclo Bretone e dalla poesia degli stilnovisti italiani.
In tutti questi testi si fa strada una particolare immagine della donna, come oggetto d’amore casto e sublimato, desiderata e irraggiungibile, e spesso desiderata in quanto irraggiungibile.
Sorge un ideale di Bellezza femminile, e di passione amorosa, in cui il desiderio viene amplificato dall’interdizione, la dama alimenta nel cavaliere uno stato permanente di sofferenza, che il cavaliere accetta con gioia. Di qui le fantasie di un possesso sempre dilazionato, in cui più la donna è vista come irraggiungibile, più s’alimenta il desiderio che essa accende, e la sua Bellezza si trasfigura.
Questa concezione dell’amore impossibile, nata nel tardo medioevo, è stata poi amplificata dall’interpretazione romantica, ma si può dire che la “invenzione” dell’amore-passione (nella sua forma cioè di passione eternamente insoddisfatta, fonte di dolce infelicità) sia nata proprio allora, e di lì sia migrata ad abitare l’arte moderna, dalla poesia al romanzo e all’opera lirica.
La “divina proporzione”
Alla fine del Medievo, tra Umanesimo e Rinascimento si assiste a un ritorno del Platonismo, i corpi regolari platonici vengono studiati e celebrati appunto come modelli ideali, da Leonardo, nel De perspectiva pingendi di Piero della Francesca, nel De Divina Proportione di Luca Pacioli, nel Della simmetria dei corpi umani di Dürer.
La divina proporzione di cui si parla in Pacioli è la sezione aurea, quel rapporto che si realizza in un segmento AB quando, posto un punto C di divisione, AB sta a AC come AC sta a CB.
Il De Architectura di Vitruvio (I secolo a.C.) tramanderà sia al Medio Evo che al Rinascimento istruzioni per la realizzazione di proporzioni architettoniche ottimali.
Il principio di proporzione riappare nella pratica architettonica anche come allusione simbolica e mistica.
C’è stato sempre un grande interesse della psicologia per il fatto che la proporzione aurea costituisce una regola pressoché costante nell’arte occidentale, dagli egizi, ai greci, al Rinascimento, senza neanche che se ne conoscesse il calcolo matematico.
Da questo fatto – oltre che dalle leggi della Gestalt – si ritiene confermata la tesi dell’esistenza nell’uomo di parametri estetici universalmente dati, vale a dire specie-specifici, caratteristici della specie umana (Argenton).
I fisiologi della visione Stone e Collins spiegano la preferenza della proporzione aurea basandosi sulla configurazione rettangolare del campo visivo umano con dimensioni il cui rapporto è molto vicino a quello della sezione aurea: il rettangolo medio tra l’estensione massima e quella minima del campo visivo è 0,665, mentre la sezione aurea è 1,618 (è degno di nota che tale rapporto nell’inquadratura cinematografica è 0,602).
La Bellezza fra invenzione e imitazione della natura
Nel XV secolo, sotto l’effetto di fattori distinti ma convergenti – la scoperta della prospettiva in Italia, la diffusione della pittura ad olio nelle Fiandre, l’influsso del neoplatonismo sulle arti liberali, il clima di misticismo promosso da Savonarola – la Bellezza viene concepita secondo un duplice orientamento che a noi moderni appare contraddittorio, ma che agli uomini del tempo parve invece coerente: sia come imitazione della natura secondo regole scientificamente accertate; sia come contemplazione di un grado di perfezione sovrannaturale, che non percepibile con la vista perché non compiutamente realizzato nel mondo sublunare.
La Bellezza soprasensibile
Il movimento neoplatonico, promosso a Firenze da Marsilio Ficino, ebbe ruolo decisivo nel processo di riabilitazione della concezione della Bellezza come imitazione della natura che Platone aveva condannato.
La vera natura della Bellezza non è la Bellezza delle parti, ma quella Bellezza sovrasensibile che si contempla nella Bellezza sensibile (pur essendole superiore). La Bellezza divina si diffonde non solo nella creatura umana, ma anche nella natura.
Le Veneri
Il simbolismo neoplatonico si concentra proprio sull’immagine della Venere .
Tiziano fa esplicito riferimento, nel suo Amor sacro e amor profano, alle Veneri Gemelle per simboleggiare la Venere Celeste e la Venere Volgare, due distinte manifestazioni di un unico ideale di Bellezza.
Botticelli
Botticelli invece, spiritualmente vicino a Savonarola (per il quale la Bellezza non è qualità che risalti divina) pone la Venus Genitrix al centro della duplice allegoria della Primavera e della Nascita di dalla proporzione delle parti, ma risplende tanto più luminosamente quanto più si avvicina alla Bellezza Venere.
Il Rinascimento
Rinascimento significa rinascita, un’idea che aveva iniziato a diffondersi in Italia fin dai tempi di Giotto, esaltato per aver fatto rinascere l’arte.
E’ noto che il Rinascimento riportò al centro della attenzione della cultura e dell’arte l’uomo.
E’ una rivoluzione importantissima che coinvolge, ovviamente, anche il concetto di bellezza.
L’arte classica divenne un punto di riferimento fondamentale per gli artisti, ma la sensibilità era del tutto nuova, imbevuta com’era della cultura cristiana da un lato e della scienza dall’altro.
Il Rinascimento, specie quello italiano, è troppo noto per soffermarcisi in questa lezione.
Perciò ci limiteremo a vedere alcune opere per soffermarci poi su alcuni aspetti meno conosciuti.
Le Dame e gli Eroi
Il Rinascimento è un periodo di intraprendenza e attività per la donna, che nella vita di corte detta legge nella moda, si adegua allo sfarzo imperante, ma non dimentica di coltivare la propria mente, partecipa attivamente alle belle arti, ha capacità discorsive, filosofiche, polemiche.
Tuttavia, al corpo della donna, che si mostra pubblicamente, fa da contraltare l’espressione privata, intensa, quasi egoistica dei volti, di non facile decifrazione psicologica e talvolta volutamente misteriosa: ecco la Venere di Urbino di Tiziano, o la donna della Tempesta di Giorgione.
L’uomo rinascimentale pone se stesso al centro del mondo e ama farsi rappresentare in tutta la sua fiera potenza, non disgiunta da una certa durezza
Piero della Francesca dipinge nel volto di Federico da Montefeltro l’espressione di un uomo che sa esattamente ciò che vuole. Le forme del corpo non nascondono la forza, né gli effetti del piacere: l’uomo di potere, grasso e tarchiato quando non muscoloso, porta e ostenta i segni del potere che esercita.
Mentre la teoria estetica si cimenta con le regole della proporzione e simmetria del corpo, i potenti uomini del tempo sono una violazione vivente di queste leggi: anche la figura maschile si presta a esaltare la libertà del pittore dai canoni classici.
Verso una Bellezza soggettiva e molteplice
Nel Rinascimento, come ho detto, giunge a un alto grado di perfezione la cosiddetta “Grande Teoria”, secondo la quale la Bellezza consiste nella proporzione delle parti.
Nello stesso tempo, però, assistiamo all’insorgere, nella mentalità e cultura rinascimentali, di forze centrifughe che spingono in direzione di una Bellezza inquieta, informe, sorprendente.
Al tramonto della civiltà rinascimentale, si fa strada l’idea che la Bellezza, anziché equilibrata proporzione nasca da una sorta di torsione, di tensione inquieta verso qualcosa che sta al di là delle regole matematiche che governano il mondo fisico.
Dal punto di vista sociale, il Rinascimento è, per la natura delle forze che lo agitano, incapace di acquietarsi in un equilibrio che non sia labile e provvisorio: l’immagine della città ideale, della novella Atene, è corrosa al suo interno da fattori che porteranno alla catastrofe politica dell’Italia e alla sua rovina economica e finanziaria.
La Bellezza pratica e la Bellezza sensuale della Riforma
Le vicende storiche della Riforma e, più in generale, del mutamento dei costumi tra Cinque e Seicento portano a una trasformazione progressiva dell’immagine femminile: la donna si riveste, e diviene massaia, educatrice, amministratrice.
Nelle Fiandre olandesi, sottoposte alla tensione doppia e contraddittoria della rigida morale calvinista e del costume borghese laico ed emancipato, si generano nuovi tipi umani, nei quali la Bellezza si unisce all’utile e al pratico: donne che possono essere sensuali e tentatrici senza però mancare al ruolo di massaie efficienti, mentre l’eleganza semplice e scarna dell’abito maschile rimanda alla necessità di non avere orpelli inutili.
La Bellezza olandese, insomma, è liberamente pratica, laddove quella che si esprime alla corte del Re Sole con Rubens è liberamente sensuale.
Il mondo di Corte si avvia così a dissolversi in quella spirale di danze galanti che vedremo nel secolo successivo con Watteau; la dissoluzione della Bellezza classica, nelle forme del manierismo e del barocco, ovvero del realismo caravaggesco e fiammingo, indica già i segni di altre forme di espressione della Bellezza: il sogno, lo stupore, l’inquietudine.
Il Manierismo
Imitando apparentemente i modelli della Bellezza classica, i manieristi ne dissolvono le regole. La Bellezza classica è sentita come vuota, priva di anima: ad essa i manieristi oppongono una spiritualizzazione che, per sfuggire al vuoto, si lancia verso il fantastico: le loro figure si muovono all’interno di uno spazio irrazionale, e lasciano emergere una dimensione onirica o, in termini contemporanei, “surreale”.
La Bellezza manierista esprime una lacerazione dell’animo appena velata
Da dove sorge quest’ansia, quest’inquietudine, questa continua ricerca del nuovo?
Se estendiamo lo sguardo alle conoscenze del tempo, possiamo trovare una risposta generale nella “ferita narcisistica” inferta all’Ego umanistico dalla rivoluzione copernicana e dagli sviluppi successivi delle scienze fisiche e astronomiche.
Lo sgomento che coglie l’uomo nello scoprire di aver perso il centro dell’universo si accompagna al tramonto delle utopie umanistiche e rinascimentali riguardo alla possibilità di edificare un mondo pacificato e armonioso.
Emblema dell’epoca è senz’altro la straordinaria Melancolia di Dürer.
Il Barocco
Il passaggio dal Manierismo al Barocco non è tanto un mutamento di scuola, quanto un’espressione di questa drammatizzazione della vita, strettamente connessa alla ricerca di nuove espressioni della Bellezza: lo stupefacente, il sorprendente, l’apparentemente sproporzionato il secolo barocco esprime una Bellezza, per così dire, al di là del bene e del male. Essa può dire il bello attraverso il brutto, il vero attraverso il falso, la vita attraverso la morte. Questo tema della morte è peraltro ossessivamente presente nella mente barocca.
Lo si vede anche in un autore non barocco come Shakespeare, e lo si vedrà ancora, nel secolo successivo, nelle stupefacenti figure macabre della Cappella di San Severo a Napoli.
Il Settecento
Di solito ci si rappresenta il Settecento come un secolo razionale.
Ma Stanley Kubrick nel suo Barry Lindon ha mostrato come, dietro la patina fredda e distanziante del secolo dei Lumi, si agitassero passioni sfrenate e violente, sentimenti travolgenti, uomini e donne raffinate quanto crudeli.
Nel Settecento la persistenza della Bellezza barocca trova ragione nel gusto aristocratico dell’abbandono alla dolcezza del vivere, mentre il severo rigore neoclassico si addice al culto della ragione, della disciplina e della calcolabilità tipici della borghesia in ascesa.
L’estetica del Settecento dà ampia risonanza agli aspetti soggettivi e indeterminabili del gusto.
Emanuele Kant, con la Critica del Giudizio, pone alla base dell’esperienza estetica il piacere disinteressato che si produce contemplando la bellezza. Bello è ciò che piace in maniera disinteressata senza essere originato da o riconducibile a un concetto: il gusto è perciò la facoltà di giudicare disinteressatamente un oggetto (o una rappresentazione) mediante un piacere o un dispiacere; l’oggetto di questo piacere è ciò che definiamo come bello.
Il sublime
Ma, soprattutto, Kant riconosce nel Sublime la potenza della Natura informe e illimitata: le rocce ardite e maestose, le nuvole temporalesche, i vulcani, gli uragani, l’oceano, e ogni altro fenomeno in cui si manifesta l’idea dell’infinità della Natura.
Kant distingue due tipi di Sublime, quello matematico e quello dinamico. L’esempio tipico di Sublime matematico è la visione del cielo stellato. Qui si ha l’impressione che quello che vediamo vada molto al di là della nostra sensibilità e si è portati a immaginare più di quello che si vede. Nasce un piacere inquieto, negativo, che ci fa sentire la grandezza della nostra soggettività, capace di volere qualcosa che non possiamo avere. Esempio tipico del Sublime dinamico è la visione di una tempesta.
Qui a scuotere il nostro animo non è l’impressione di una infinita vastità, bensì di una infinita potenza: anche qui rimane umiliata la nostra natura sensibile, da cui deriva ancora una volta un senso di disagio, compensato dal sentimento della nostra grandezza morale, contro a cui nulla valgono le forze della natura.
La poetica delle montagne
Il Settecento è un’epoca di viaggiatori ansiosi di conoscere nuovi paesaggi e nuovi costumi non per desiderio di conquista, come è avvenuto nei secoli precedenti, ma per provare nuovi piaceri e nuove emozioni. Si sviluppa così un gusto per l’esotico, l’interessante, il curioso, il diverso, lo stupefacente.Nasce in questo periodo quella che potremmo chiamare la “poetica delle montagne”: il viaggiatore che si avventura nella traversata delle Alpi è affascinato da rupi impervie, ghiacciai senza fine, abissi senza fondo, distese senza confini.
La poetica delle rovine
Il Rinascimento si era appassionato alle rovine dell’antichità greca perché attraverso di esse si può indovinare la forma compiuta delle opere originali; il neoclassicismo aveva cercato di reinventare queste forme (si pensi a Canova e a Winckelmann).
Ora invece la rovina è apprezzata proprio per la sua incompletezza, per i segni che il tempo inesorabile vi ha lasciato, per la vegetazione incolta che la ricopre, per i suoi muschi e per le sue crepe.
Il gusto del gotico e delle rovine non caratterizza solo le arti visive ma anche la letteratura: in questa seconda metà del secolo fiorisce il romanzo “gotico”, popolato di castelli e monasteri in decadenza, sotterranei inquietanti, propizi a visioni notturne, delitti tenebrosi e fantasmi.
Parallelamente fioriscono la poesia cimiteriale, l’elegia funebre, una sorta di erotismo mortuario.
Mentre alcuni rappresentano paesaggi o situazioni terrorizzanti, altri s’interrogano sul perché l’orrore possa provocare diletto, visto che sino ad allora l’idea di diletto e piacere era stata associata invece all’esperienza del Bello.
La Bellezza romantica
I primi romantici tedeschi ampliano la portata dell’indefinibile e del vago coperto dal termine “romantisch”: esso include tutto ciò che è lontano, magico, sconosciuto, compreso il lugubre, l’irrazionale, il mortuario.
La Bellezza cessa di essere una forma e diventa Bello l’informe, il caotico.
L’espressione “Je ne sais quoi” fa riferimento a una Bellezza non esprimibile con le parole.
L’uomo moderno non è il frutto di una evoluzione ma di una degenerazione della purezza originaria; la battaglia contro la civiltà va combattuta con armi nuove, non più tratte dall’arsenale della ragione (che è prodotta dalla medesima degenerazione): le armi del sentimento, della natura, della spontaneità.
Questo spirito è rafforzato dalla valorizzazione dell’individuo
Ma la natura stessa appare oscura, informe, misteriosa: non si lascia catturare da forme precise e nette, ma travolge lo spettatore con visioni grandiose e sublimi. Per questo non si descrive la Bellezza della natura, ma la si sperimenta direttamente, la si intuisce lanciandovisi dentro.
E la malinconia notturna è il sentimento che esprime meglio questo immergersi e compenetrarsi nella natura.
Ciò che i romantici tedeschi si attendono è che tale Bellezza possa produrre una nuova mitologia, che sostituisca alle “favole” degli antichi un discorso che sia moderno nei contenuti ma che possieda la stessa immediatezza comunicativa dei miti greci.
La Bellezza può ora esprimersi facendo convergere gli opposti, cosicché il Brutto non è la negazione, ma l’altra faccia della Bellezza.
Il Decadentismo e la religione estetica
Sul finire dell’epoca romantica, l’artista, di fronte all’oppressività del mondo industriale, all’ampliarsi delle metropoli percorse da folle immense e anonime,decide di farsi “diverso”.
Così prende forma una vera e propria religione estetica,all’insegna dell’Arte per l’Arte. S’impone l’idea che la Bellezza sia un valore primario da realizzare a ogni costo, a tal punto che per molti la vita stessa andrà vissuta come opera d’arte
Si sviluppa l’impulso, già presente nel Romanticismo, a conquistare al mondo dell’arte gli aspetti più inquietanti della vita, la malattia, la trasgressione, la morte, il tenebroso, il demoniaco, l’orrendo.
Rappresentando l’arte vuole redimere nella luce della Bellezza tutti questi aspetti e li rende affascinanti anche come modello di vita.
Entra in scena una generazione di sacerdoti della Bellezza che portano alle estreme conseguenze la sensibilità romantica, esasperandone ogni aspetto,
La nostalgia per i periodi della decadenza ha dato a questo movimento il nome di decadentismo (che si suole fare iniziare nella seconda metà dell’Ottocento e che si prolunga in modo consistente sino ai primi decenni del XX secolo).
Mentre però alcuni artisti del XIX secolo intendono l’ideale dell’Arte per l’Arte come culto esclusivo, paziente, artigianale, di un’opera a cui dedicare la propria vita, per realizzare la Bellezza in un oggetto, il dandy (e anche artisti che si vogliono al tempo stesso dandy) intende questo ideale come culto della propria vita pubblica, da “lavorare”, modellare come un’opera d’arte per farne un esempio trionfante di Bellezza.
Non è che la vita sia dedicata all’arte, è l’arte che viene applicata alla vita. La Vita come Arte.
In D’Annunzio il dandismo assumerà forme eroiche (Bellezza dell’atto ardimentoso); in altri, specie nel decadentismo francese, prende le forme di un cattolicesimo tradizionalista e reazionario, manifestazione di rivolta contro il mondo moderno.
In quest’epoca – mentre si profila una sorta di insofferenza sprezzante verso la natura -Bellezza e Arte si fondono in una coppia inscindibile.
Non vi è Bellezza che non sia opera di artificio; solo ciò che è artificiale può essere bello. “La natura è abitualmente sbagliata” dirà Whistler; e Wilde preciserà: “Più studiamo l’arte meno c’interessa la natura”.
La natura bruta non può produrre Bellezza: deve intervenire l’arte, che crea – laddove non v’era che disordine accidentale – un organismo necessario e inalterabile.”Il tempo della natura è passato. Essa ha ormai esaurito la pazienza degli spiriti raffinati con la stucchevole monotonia dei suoi paesaggi e dei suoi cieli”.
I grandi temi della sensibilità decadente si aggirano tutti intorno all’idea di una Bellezza che nasce dall’alterazione delle potenze naturali.
La Bellezza del decadentismo è pervasa da sensi di disfacimento, di deliquio, di sfinimento, di languore.
L’unico oggetto di natura che sembra sopravvivere e trionfare in questa stagione del gusto, è il fiore – che anzi darà origine a uno stile, il floreale (o liberty).
Il simbolismo
La poetica del simbolismo impone al tempo stesso una visione dell’arte e una visione del mondo.
La natura è una foresta di simboli. Colori e suoni, immagini e cose si richiamano gli uni con gli altri, rivelandoci affinità e consonanze misteriose.
Il poeta diventa il decifratore di questo linguaggio segreto dell’universo, la Bellezza è la Verità nascosta che egli porterà alla luce.
Si capisce allora come, se tutto possiede questa potenza di rivelazione, si debba intensificare l’esperienza laddove è sempre apparsa tabù, negli abissi del male e della sregolatezza, dove potranno scaturire gli accostamenti più fecondi e violenti, e le allucinazioni saranno più rivelatrici che altrove.
In un universo dominato dalla Casualità, solo la Parola poetica può realizzare, nella misura inalterabile del verso (frutto di lunga pazienza, di un lavoro eroico ed essenziale) l’assoluto.
“Tutto è adorazione”, eppure “la perfezione più alta non può esistere senza che vi si mescoli qualche oscurità…”.
L’epifania (il manifestarsi al poeta della verità nascosta della bellezza) è un’estasi, ma un’estasi senza Dio: essa non è la trascendenza, ma l’anima delle cose di questo mondo, è un’estasi materialistica.
Joice e Proust
Joyce, verrà colpito a tratti da avvenimenti apparentemente insignificanti nei suoi Racconti di Dublino e nell’Odissea quotidiana del suo Blum.
- Per Marcel Proust, la rivelazione avverrà tramite il gioco della memoria: attraverso il cortocircuito della “memoria involontaria”, scatta la rivelazione di una parentela tra gli eventi della nostra vita, che il cemento del ricordo tiene insieme conferendole unità.
- All’idea di una epifania come visione, questi autori associano l’idea di una epifania come creazione: se possiamo fuggevolmente esperire l’incanto epifanico, solo l’arte ci permette di comunicarlo agli altri, solo l’arte, anzi, il più delle volte lo fa scaturire dal nulla, dando un significato alle nostre esperienze.
La solida Bellezza vittoriana
- L’idea di Bellezza non è solo relativa a diverse epoche storiche. Anche in una stessa epoca, e persino nello stesso paese, possono coesistere diversi ideali estetici. Così mentre nasce e si sviluppa l’ideale estetico del decadentismo, prospera un’idea di Bellezza che diremo “vittoriana”.
- Il periodo che va dai moti del 1848 alla crisi economica di fine secolo è generalmente definito dagli storici come “l’età della borghesia”.
- Il mondo vittoriano (e quello borghese in generale) è un mondo retto da una semplificazione della vita e dell’esperienza in senso schiettamente pratico: le cose sono giuste o sbagliate, belle o brutte, senza inutili compiacimenti per l’equivoco, i caratteri misti, le ambiguità.
- Il borghese non è lacerato dal dilemma tra altruismo ed egoismo: è egoista nel mondo esterno (in borsa, sul libero mercato, nelle colonie) e buon padre, educatore e filantropo nel chiuso delle pareti domestiche. Il borghese non ha dilemmi morali: è moralista e puritano a casa sua, ipocrita e libertino con le giovani donne dei quartieri proletari fuori da casa sua.
L’impressione
“Non c’è che una cosa vera, fare al primo colpo ciò che si vede“
Il simbolismo sta ormai dando vita a nuove tecniche di contatto con la realtà, la ricerca della Bellezza abbandona il cielo e porta l’artista a immergersi nel vivo della materia.
A mano a mano che procederà, l’artista dimenticherà persino l’ideale del Bello che lo guidava, e intenderà l’arte non più come registrazione e provocazione di un’estasi estetica ma come strumento di conoscenza.
L’invenzione della fotografia (1839) porterà sempre più gli artisti a riflettere sul confronto tra realtà percepita e realtà fotografica.
Degas, Manet e gli impressionisti furono molto influenzati da questa riflessione e da questa ricerca.
L’espressionismo
La fotografia ed il cinema (fotografia in movimento) influenzeranno notevolmente anche la ricerca degli espressionisti.
Da un lato si fece strada un rifiuto del mondo fisico come è visto dalla macchina fotografica per superare i limiti dell’obbiettivo attraverso l’espressione delle emozioni e dei sentimenti dell’artista.
Munch: “Non ho paura della fotografia fintantoché non può essere usata né in paradiso né all’inferno”.Dall’altro il movimento delle immagini entrò direttamente nell’opera, ancor prima che nel futurismo.
Il folle in trance di Paul Klee “può essere preso come esempio di immagini istantanee del movimento sovrapposto” (Klee).
Anche nella rappresentazione cubista c’è l’influenza della fotografia in movimento: solo che qui non è l’oggetto a muoversi, ma è l’osservatore a muoversi intorno all’oggetto, rappresentandolo da vari punti di vista contemporaneamente.
Ferro e vetro: la nuova Bellezza
Contribuiscono contemporaneamente alla crisi delle forme vittoriane e all’affermazione delle nuove forme di fine Ottocento e inizio Novecento i nuovi materiali in cui si esprime la Bellezza architettonica degli edifici.
L’Art Nouveau si diffonde a cavallo dei due secoli con notevole rapidità nel campo del decorativo, dell’oggettistica e del design.
Si potrebbe anche parlare di una Bellezza narcisistica: come Narciso, specchiandosi nell’acqua, proiettò la propria immagine fuori di sé, così nell’Art Nouveau la Bellezza interiore si proietta sull’oggetto esterno e se ne impadronisce, avviluppandolo nelle sue linee.
La Bellezza funzionalistica
Gli elementi formali dell’Art Nouveau vengono sviluppati, a partire dal 1910, dallo stile Déco, che ne eredita i caratteri di astrazione, distorsione e semplificazione formale verso un funzionalismo più marcato.
La libertà e la ricchezza decorativa vengono progressivamente soppiantate da un design sempre più stilizzato, volutamente accessibile al gusto comune.
Una Bellezza non più estetica, ma funzionale, una ricercata sintesi tra qualità e produzione di massa. Una Bellezza seriale: gli oggetti sono estrapolati da una serie o già predisposti all’inclusione seriale.
L’oggetto, insomma, perde quei tratti di unicità – l’“aura” – che ne determinavano la Bellezza e l’importanza.
La nuova Bellezza è riproducibile, ma anche transitoria e deperibile: deve indurre il consumatore a una rapida sostituzione, per consunzione o disaffezione, per non arrestare la crescita esponenziale del circuito della produzione, distribuzione e consumo delle merci.
Non c’è più spazio per la denuncia; compito dell’arte è constatare che qualsivoglia oggetto, senza distinzione tra uomini e cose – dal volto di Marilyn Monroe alla scatola di fagioli, dalla vignetta del fumetto alla presenza inespressiva della folla alle fermate d’autobus – acquista o perde la propria Bellezza non in base al suo essere, ma alle coordinate sociali che ne determinano i modi di apparire: una semplice banana gialla, senza alcun nesso apparente con l’oggetto che contrassegna, può nondimeno illustrare la copertina di uno dei più avanguardistici gruppi musicali, i Velvet Underground (prodotti da Andy Warhol).
Non importa che gli oggetti siano bottiglie, barattoli, scatole usati e riutilizzati. O forse è proprio questo il segreto della Bellezza che Morandi cerca fino alla fine dei suoi giorni: il suo scaturire, in modo inatteso, dalla patina di grigio che copre l’oggetto qualunque.
La bellezza delle macchine
Una prima idea del valore simbolico del prodigio meccanico appare forse nel XV secolo in Marsilio Ficino, e Leonardo, quando disegna i suoi meccanismi, dedica alla loro rappresentazione lo stesso amore e lo stesso gusto che riserva alla rappresentazione di volti e corpi umani o a elementi del mondo vegetale.
La macchina leonardesca si compiace di mostrare le proprie articolazioni, come se fosse una cosa animale.
Con l’invenzione della macchina a vapore si afferma definitivamente un entusiasmo estetico per la macchina, anche da parte dei poeti: basti come documento l’Inno a Satana di Carducci, in cui la locomotiva, mostro “bello” e terribile, diventa simbolo del trionfo della ragione contro l’oscurantismo del passato.
All’inizio del XX secolo i tempi sono maturi per l’esaltazione futurista della velocità, e Marinetti arriverà ad affermare, dopo aver invitato a uccidere il chiaro di luna come inutile ciarpame poetico, che una macchina da corsa è più bella della Vittoria di Samotracia.
“Cercar le sue statue tra i sassi“
L’arte contemporanea ha scoperto il valore e la fecondità della materia.
Michelangelo sosteneva, come è noto, che la scultura gli si presentava come già contenuta virtualmente nel marmo originario, così che all’artista non restava che cavare dalla pietra il di più, per trarre alla luce quella forma che il materiale, nelle sue nervature, già conteneva.
Tuttavia nella sua epoca si riteneva che la materia di per se stessa fosse informe e che la Bellezza sorgesse dopo che su di essa si era impressa un’idea, una forma.
Benedetto Croce insegnava che la vera invenzione artistica si sviluppa in quell’attimo dell’intuizione-espressione che si consuma tutto nell’interiorità dello spirito creatore, mentre l’estrinsecazione tecnica, la traduzione del fantasma poetico in suoni, colori, parole o pietra, costituirebbe solo un fatto accessorio, che non aggiunge nulla alla pienezza e definitezza dell’opera.
E’ per reagire a questa persuasione che l’estetica contemporanea ha rivalutato la materia.
Bellezza, verità, invenzione, creazione non stanno solo dalla parte di una spiritualità angelicata, ma hanno anche a che fare con l’universo delle cose materiali, che si toccano, che si odorano, che quando cadono fanno rumore, che tendono verso il basso, per imprescindibile legge di gravità, che sono soggette a usura, trasformazione, decadenza e sviluppo.
Così, per la maggior parte dell’arte contemporanea la materia diventa non più e soltanto il corpo dell’opera, ma anche il suo fine, l’oggetto del discorso estetico.
Con la pittura detta “informale” si assiste al trionfo delle macchie, delle screpolature, dei grumi, delle falde, degli sgocciolii.
Essa usa questo materiale per fare un’opera e, così facendo, seleziona, mette in evidenza, e quindi conferisce una forma all’informe, e vi pone il suggello del suo stile.
Dopo aver visto un’opera d’arte informale possiamo sentirci incoraggiati a esplorare con occhio più sensibile anche le macchie veramente casuali, il disporsi naturale del pietrisco, lo spiegazzarsi di alcuni tessuti mangiati o tarlati. Ed ecco dunque che questa esplorazione della materia, e questo lavoro su di essa, ci porta a scoprirne la segreta Bellezza.
Così pure accade per l’oggetto trovato, una beffarda polemica contro il mondo industrializzato che ci insegna anche ad amare questi oggetti, e ci ricorda che anche l’universo dell’industria ha delle “forme” che possono comunicarci un’emozione estetica.
La bellezza dei media: provocazione o consumo?
La Bellezza della provocazione è quella proposta dai vari movimenti d’avanguardia e dallo sperimentalismo artistico: dal futurismo al cubismo dall’espressionismo, al surrealismo, da Picasso sino ai grandi maestri dell’arte informale e oltre.
L’arte non si propone più di fornire un’immagine della Bellezza naturale, né vuole procurare il piacere pacificato della contemplazione di forme armoniche.
Al contrario, essa vuole insegnare a interpretare il mondo con occhi diversi, a godere del ritorno a modelli arcaici o esotici, l’universo del sogno o delle fantasie dei malati di mente, le visioni suggerite dalla droga, la riscoperta della materia, la riproposta stralunata di oggetti d’uso in contesti improbabili (vedi nuovo oggetto, dada, ecc.), le pulsioni dell’inconscio.
Ci sono molte correnti dell’arte contemporanea (happenings, eventi in cui l’artista incide o mutila il proprio corpo, coinvolgimenti del pubblico in fenomeni luminosi o sonori) in cui pare che sotto il segno dell’arte si svolgano piuttosto cerimonie di sapore rituale, non dissimili dagli antichi riti misterici, che non hanno per fine la contemplazione di qualcosa di bello, bensì una esperienza quasi religiosa, anche se di una religiosità primitiva e carnale, da cui sono assenti gli dei.
Di carattere misterico sono ad esempio le esperienze musicali che folle immense fanno in discoteca o nei concerti rock,
Il secolo XX, attraversato da molteplici contraddizioni
La prima è stata tra modello e modello nel corso dello stesso decennio: ad es., il cinema propone negli stessi anni il modello della donna fatale impersonato da Greta Garbo o da Rita Hayworth, e quello della “ragazza della porta accanto”, impersonato da Claudette Colbert o da Doris Day.
La seconda è tra arte di provocazione e arte di consumo, anche se lo spazio tra questi due modelli si sta progressivamente assottigliando.
Una terza contraddizione: insieme a forti spinte all’omologazione culturale ed estetica si assiste anche al fenomeno opposto. Concetti e modelli diversissimi tra loro assumono contemporaneamente carattere di massa.
Con l’avvento dei mass media, non si presenta più alcun modello unificato. Un eventuale esploratore del futuro che entrasse in contatto con le opere d’arte del nostro tempo non potrà più individuare l’ideale estetico diffuso dai mass media del XX secolo e oltre. E dovrà arrendersi di fronte all’orgia della tolleranza, al sincretismo totale, all’assoluto e inarrestabile politeismo della Bellezza.
E’ un bene o un male? Un po’ l’uno e un po’ l’altro. La mancanza di un’idea di bellezza condivisa può portare al relativismo culturale senza principi e alla mancanza di gusto estetico. Così l’interesse diventa l’unico punto di riferimento (la bruttezza delle nostre città ne è una delle estreme conseguenze). Ma anche l’affermarsi di un concetto di bellezza materiale del tutto esteriore, del corpo e dello stile di vita, basato sul puro narcisismo, che diventa una condanna per chi lo persegue e una nuova spinta all’omologazione.
Ma può essere anche un’opportunità. Da un lato offre una maggiore libertà di affermare ed esprimere il proprio gusto e la propria idea di bellezza, dall’altro apre a nuovi possibili idee e concezioni della bellezza, più adatti ai tempi che viviamo e soprattutto al futuro che vogliamo costruire.
Poiché senza bellezza la vita perde progressivamente di gusto e di significato e l’esistenza umana diventa vuota ed infelice, a ognuno di noi, non da soli ma in una ricerca corale, spetta la responsabilità di ricercare la propria visione della bellezza e di orientare ad essa la ricerca della bellezza nella propria vita.
Bibliografia
- www.geometriadellinfinito.it
- AA. VV. (a cura di Umberto Eco), Bellezza, Storia di un’idea dell’Occidente, Gruppo Editoriale L’Espresso.
- Alberto Argenton, Arte e cognizione, Raffaello Cortina editore
- Galvano Della Volpe, Storia del gusto, Editori Riuniti.
- Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini, Arte e cervello, Zanichelli Editore.
- Stefano Zecchi e Elio Franzini, Storia dell’estetica. Antologia di testi, Il Mulino.