Luchino Visconti, esteta rigoroso che raccontava la bellezza

Luchino Visconti è stato un maestro, ben consapevole di esserlo. Un individuo meticoloso, sempre alla ricerca di una perfezione purtroppo impossibile. Un uomo di stile e carismatico, che sapeva utilizzare l'educazione come una forza vitale per andare controcorrente.

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La sua arte fece la storia del cinema mondiale e fu esempio di bellezza, poesia, costante ricerca della perfezione. Di Luchino Visconti è rimasto molto, sopratutto un patrimonio che ha avuto pochi paragoni nella cultura italiana ed europea. Un caso singolare, per la storia personale che ha avuto e per come ha vissuto la sua esistenza. Controcorrente e discusso, ma anche amato e preso in considerazione come esempio da seguire.

Dai palazzi alla Resistenza

Figlio del Duca Giuseppe Visconti di Modrone e di Carla Erba, Luchino crebbe dentro a palazzi in cui il tempo sembrava essersi fermato: la sua era una famiglia realmente facoltosa e ricca di storia sin dal tredicesimo secolo. Nonostante ciò ebbe il merito, crescendo, di seguire ugualmente la trasformazione della società senza aver paura di sporcarsi le mani.
Nonostante la sua origine, egli rischiò in prima persona aderendo al Partito comunista, non trovando paradossale che tutto ciò sembrasse, ad una prima lettura superficiale, in contrasto con le sue origini e dalla sua condizione economica che non aveva conosciuto privazioni.
All’accendersi del secondo conflitto mondiale, l’impegno nella Resistenza divenne una parte fondamentale della sua vita.

Fascismo “di sinistra”

Luchino Visconti - Ossessione

Negli anni della sua giovinezza conobbe Coco Chanel, entrando in contatto, tra gli altri, con Jeane Renoir, che lo influenzerà, una volta intrapresa la carriera di regista, nelle sue scelte formali (la fotografia, la luce, le ambientazioni). A Parigi, in quegli anni di interesse giovanile, Visconti maturò la sua idea politica, un comunismo che lo fece interprete di un modo di reagire e trasgredire nell’Italia del fascismo. Da qui la frequentazione con il gruppo della rivista d’avanguardia “Cinema“, diretto da Vittorio Mussolini, figlio del Duce, che distribuiva 200mila copie e divenne un vivaio di autori non conformi per l’epoca.
Fu all’interno di quel gruppo di giovani intellettuali che si decise di tagliare il filo con la commedia dei “telefoni bianchi“, con le opere simpatiche al regime. Prese corpo così il seme di quel “fascismo di sinistra“, di natura sociale, che sfociò poi successivamente nelle simpatie per il marxismo. In questo laboratorio, fu lo stesso Visconti ad avviare il dialogo con Verga, con le situazioni più vere del mondo contemporaneo.

Si arrivò dunque alla prima opera, ”Ossessione”, una pellicola controcorrente ispirata al romanzo “Il postino suona sempre due volte” di James Cain.
Mario Alicata, uno di coloro che partecipò alla stesura del film, venne arrestato durante le riprese per le sue attività di opposizione al governo. Ma l’idea dell’Italia vera, quella contestualizzata in una pianura padana di canottiere stracciate e di tavoli in cui regnava la confusione, venne comunque esposta con la sua nudità travolgente. La tragedia della vita fu finalmente offerta al pubblico. L’idea ebbe un impatto straordinario sugli intellettuali. Mentre nel nord Italia la pellicola uscì in parte censurata, a Roma fu visibile solo in un paio di sale. Vescovi e cardinali la attaccarono duramente, ma tutto ciò segnò il prologo della fine di un’epoca. Stavano per arrivare il 25 luglio del 1943 e l’8 settembre: la fine del fascismo e l’Armistizio.

Resistenza e libertà

Nel periodo dell’occupazione tedesca tra l’8 settembre del 1943 e il 4 Giugno del 1944 la villa di Visconti a Roma, in via Salaria, diventa uno dei centri della clandestinità. Una dimora insospettabile, ma totalmente coinvolta nella lotta politica. Il cinema non c’è più, cospira.
Luchino prende il nome di Alfredo Guidi ma, a causa di una soffiata, viene arrestato: la pensione Jaccarino, quella usata dalla Banda Koch per i suoi interrogatori e le sue torture, diventa la sua prigione per alcuni giorni. Viene picchiato, trasferito in un altro carcere e liberato il giorno prima dell’arrivo degli americani.

La guerra finisce, l’Italia conosce una nuova epoca. Il regista pensa ad un film di verità, “Giorni di gloria“, che documenta momenti che segnano la vita della nazione come il recupero dei cadaveri alle Fosse Ardeatine o il processo e la fucilazione all’ex questore di Roma, Pietro Caruso e di Pietro Koch, ma anche il linciaggio del direttore del carcere di Regina Coeli Donato Carretta.
Da questo preciso momento il regista intraprende un percorso. Porta nuovi testi sulla scena teatrale italiana, sprovincializzandola e inserendola in un respiro più europeo. Il suo rapporto con il PCI si infittisce, ma talvolta non va in armonia con le scelte del vertice. Sono periodi di tensione, mai svelati pubblicamente, che si acuiscono col passare degli anni, ad esempio, nella critica contro l’invasione d’Ungheria o Cecoslovacchia.
Visconti è sicuramente un militante, ma non vive un’appartenenza reale al partito. Per dirla con una frase ad effetto (e forse non straordinariamente adatta) è un “compagno di strada“, un uomo che condivide con gli altri la critica alla società capitalista.

Vicende storiche, umane e sociali

Il Gattopardo

Il lungo dopoguerra per Visconti è un periodo di trasformazione. E’ il tempo de “La terra trema“, girato ad Aci Trezza, uno dei grandi capolavori del cinema mondiale. Un cast fatto da pescatori, un lavoro potente che vede la collaborazione di Franco Zeffirelli e Francesco Rosi. E’ il ritratto di una parte della Sicilia uscita dal conflitto bellico, il risultato dell’esperienza neorealistica assorbita nella sua pienezza. L’opera arriva al Festival del Cinema di Venezia.
Visconti rafforza il senso della sua causa portando in quel clima mondano i diseredati dei territori che aveva descritto: uno scandalo per alcuni, ma al tempo stesso un modo di distinguersi. Tematiche che riprenderà anche in “Rocco e i suoi fratelli“, la storia di cinque fratelli lucani immigrati a Milano con la madre che diventano un potente affresco sullo sradicamento dei meridionali.

Negli anni cinquanta è il tempo del sempre attuale “Bellissima“, del ritorno al suo amato melodramma con “Senso“, della denuncia sociale con “Rocco e i suoi fratelli“. L’impetuosità de “Il Gattopardo“, girato per alcuni tratti ad Ariccia, nei Castelli Romani, è dietro l’angolo.
La sontuosità inquieta e malinconica di Palazzo Chigi e del suo barocco diventano il set ideale per raccontare il declino di un tempo e il turbamento di non riuscire ad adattarsi ai cambiamenti in corso. Le vicende storiche, umane e sociali, scaturite dopo lo storico sbarco di Garibaldi in Sicilia (a Marsala) nel maggio del 1860, dove Don Fabrizio assiste con distacco alla fine della sua piccola borghesia, sono ancora nella nostra epoca utilizzate per etichettare tutti quei cambiamenti che alla fine portano solo un momentaneo sconquasso e non modificano lo stato delle cose.

La fine di un mondo

La lunga scena del ballo all’interno de “Il Gattopardo” è la narrazione di un mondo che cade. Ed è proprio da questo momento, con l’avvento degli anni sessanta, che Visconti va incontro alla sua ”crisi” personale, peggiorata più tardi da un ictus che lo costringe alla sedia a rotelle.
Non riconosce più il tempo in cui vive, non riesce a stare dietro alle pulsioni delle giovani generazioni che premono in tutti i ruoli della società, cinema compreso. Tuttavia è combattivo, è consapevole che pur amando il mondo popolare lui continua ad analizzare le ombre della sua radice, il tramonto delle sue origini. E’ quella fine dei tempi che trova visione nel professore che muore sulla spiaggia in “Morte a Venezia“, e quindi in “Gruppo di famiglia in un interno” – prodotto da un editore notoriamente anticomunista, Edilio Rusconi – in cui si esternano le vicende e la solitudine di un intellettuale e la decadenza della cultura occidentale.
Per la sua scelta di avvalersi della collaborazione con Rusconi, il quale aveva avuto il merito di pubblicare il “Signore degli anellidi Tolkien in tempi in cui ancora era ben lontano dall’essere di moda, si mette contro i suoi amici. Sono gli ultimi sussulti creativi, assieme alla regia de “L’innocente” (di Gabriele D’Annunzio), prima del decesso che sopraggiunge il 17 marzo del 1976 per una trombosi.

Il regista gentiluomo, amato dalle donne

Luchino Visconti e le donne

«Di tutti i compiti che mi spettano come regista quello che mi appassiona di più è il lavoro con gli attori, materiale umano col quale si costruiscono questi uomini nuovi che generano una nuova realtà, la realtà dell’arte». È il manifesto poetico con cui Luchino Visconti descrive la propria idea di cinema ed è anche una dichiarazione d’amore verso gli interpreti che hanno prestato il volto alle sue storie, al cinema come a teatro: ben più che maschere, guidate dalla maestria e dall’autorevolezza del regista ad esprimersi al meglio, senza protagonismi, capricci da primedonne e vezzi.

E’ stato così per Alida Valli sedotta e abbandonata in “Senso” e per l’inguaribile sognatrice Anna Magnani di “Bellissima“, per la disgraziata Annie Girardot di “Rocco e i suoi fratelli” e l’irresistibile Claudia Cardinale de “Il Gattopardo“, solo per citare alcune delle dive mirabilmente ritratte da Visconti. A molte il regista regalerà il ruolo della vita, mentre ad altre saprà tirar fuori capacità e sfumature impreviste, senza il bisogno di trovare “muse” per la propria arte, che resta corale e inserisce attori e attrici in ingranaggi perfetti, affreschi storici o contemporanei dove vincono la varietà e i dettagli.

Esigente, meticoloso e severo da regista, Visconti ha saputo mantenere con tante delle sue interpreti rapporti d’amicizia anche oltre i set cinematografici e teatrali, come è stato con Maria Callas, Rina Morelli, Lucia Bosé, Romy SchneiderClaudia Cardinale. Tutte provano per Visconti gratitudine e stima, e ne ricordano il garbo e il rispetto, forse retaggio delle sue origini aristocratiche o segno di un rapporto risolto con le donne, passato attraverso i fortissimi legami familiari con la madre e le tre sorelle, alcuni amori giovanili – tra cui Coco Chanel, Maria Denis, Clara Calamai e Marlene Dietrich – e la successiva ammissione della propria omosessualità, che trova riferimenti espliciti in molte delle sue opere.

Luchino Visconti è stato un maestro, ben consapevole di esserlo. E’ stato un individuo meticoloso, sempre alla ricerca di una perfezione purtroppo impossibile. Un uomo di stile – carismatico, a tratti affettuoso ma con un carattere complesso – che sapeva utilizzare l’educazione come una forza vitale per andare controcorrente.

Era dotato di una cultura superiore ed era un grande esteta. Ha saputo interagire dentro al cinema e al teatro, due mondi agli antipodi. Pochi ci sono riusciti. Aveva un carattere difficile – dicono – rigoroso sul lavoro, con tempi di lavorazione oggi inattuali.
Le sue opere, inevitabilmente, risentono di tutto ciò con il passare del tempo e allo stesso modo si arricchiscono acquisendo unicità. Per questi motivi la sua arte continua a non essere per tutti, anche ora che è diventata scuola e storia. In questo, oltre al valore, sta parte della sua eccellenza.

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